RESTAllaMODA
- TRESHTAURO
- 14 dic 2018
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 21 dic 2018
“Il restauratore prestato alla moda si copre la testa”
Veronica Vallotto

Il prêt-à-porter dei restauratori.
Felpe, pile, sciarponi, girocollo di decathlon riempiono gli armadi di ogni restauratore che si rispetti.
Un’immancabile pila di t-shirt bianche pronte per i cantieri estivi dove si sfiorano i 40 gradi all’ombra e per la maggior parte in zone non ventilate.
La tipica tuta da Bob l’aggiustatutto (guai a chi non lo conosce) o per chi invece la trova poco pratica un bel paio di pantaloni, rigorosamente bianchi e di cotone ben spessi, per tutti i cantieri all’esterno. Se si parla di lavori in laboratorio non ci si possono dimenticare i camici bianchi.
Ma perché tutto così bianco?
Il motivo è semplice: massima visibilità in ogni luogo, ma allo stesso tempo invisibilità del sudore. Dal punto di vista tecnico, la fisica ci insegna che il colore bianco è ottimo in quanto non riflette altri colori sulla superficie, in questo modo non si hanno visioni falsate delle cromie; utile quindi nel caso di un ritocco pittorico.
Qualche sergente della moda ci chiederebbe: “ma come ti vesti?”
Io risponderei con le parole di un celebre scrittore: “La moda è ciò che uno indossa. Ciò che è fuori moda è ciò che indossano gli altri”, Oscar Wilde.
Posizioni alquanto scomode sono all’ordine del giorno, il capo a terra, con le gambe incastrate tra un piano e l’altro dell’impalcatura per curare zone in sottosquadro; schiena a 90 gradi per visionare affreschi in una volta a botte, ginocchia piegate come fossimo in punizione con sotto i sassi, per ritoccare aree affrescate quasi intoccabili. In bilico tra un piano e l’altro, per rimuovere del guano da un mascherone troppo esposto all’aperto.
Tutto questo e molto altro non sarebbe possibile se non ci fosse alla base un abbigliamento comodo, quasi come non averlo addosso.
Ora vi dimostrerò cosa intendo per “posizioni scomode” ...




Huelva, 12 agosto 2002. Anna: restauratrice di materiali lapidei architettonici alle prese con l’ottocentesco palazzo di ...
≤Non mi vergogno a dirlo, ero in cantiere, al terzo piano del ponteggio. Mi era caduta un’intera ciocca di capelli. Andai in ospedale per un’iniezione di cortisone. La causa dell’accaduto era fonte di stupore del mio medico. Il suo sguardo esprimeva tutto. ≥
Accadde proprio questo durante un cantiere estivo di restauro, in quel di Huelva: un barattolo di plastica al terzo piano di un’impalcatura cadde. Un ragazzo maldestro, che cantava “il Gladiatore” per ingannare il gran caldo, si lasciò prendere dall’euforia e urtò contro il tavolino dei prodotti.
Il disastro.
Il barattolo si aprì, facendo fuoriuscire la soluzione, che finì sopra la testa di una compagna, ignara di ciò che stava per accadere.
Il ragazzo colpevole non fece in tempo a dire una sola parola, che vide la compagna al piano di sotto con la testa zuppa e stava per esplodere dalla rabbia.
La voce di Anna si fece sentire, con la solita domanda di routine: ≤ È acqua? ≥
Nessuna risposta.
Un clima di suspence che ricordava le scene del vecchio west.
Qualcuno però si rese conto dell’accaduto.
Non era acqua, ma una soluzione di sale d’ammonio acido in acqua, usato per il suo potere desolfatante, quindi non di certo salutare per la cute.
Anna fu costretta a fare un’iniezione di cortisone.
Nulla di così preoccupante o irrisolvibile, eccetto l’ira verso quello sbadato del suo compagno, che non si era saputo controllare durante le ore lavorative.
Si poteva evitare?
Più facile a dirsi che a farsi. Spesso non vengono rispettate le norme di sicurezza per mancanza di serietà, voglia e attenzione. Quindi perché non portare quasi all’assurdo alcune di queste regole, permettendo così una maggior propensione alla loro attuazione. Ma in che modo?
Con un accessorio vintage: il turbante, che dovrebbe diventare il must-have di ogni restauratore.
Vi starete chiedendo però quale sia la relazione tra un oggetto così insolito e il lavoro del restauratore. All’apparenza nessuna, per alcuni potrebbe essere addirittura una frivolezza. Ma non è assolutamente così.
In realtà questo copricapo è molto più di ciò che appare, è divenuto segno di identificazione per la religione indiana dei Sikh e simbolo di rispetto verso Dio, il loro credo. Lo stesso rispetto che i restauratori hanno nel loro lavoro.
Quindi se questa fosse un’equazione, il rispetto per l’opera d’arte starebbe al rispetto per Dio come il restauratore starebbe ai Sikh.
Già nel periodo della Grande Guerra venne utilizzato dalle truppe Sikh sul fronte occidentale (Francia e Belgio), come segno distintivo verso gli altri soldati e in secondo luogo come protezione per i capelli, considerati sacri per la religione indiana.
Tale funzione rispecchia il compito che dovrebbe assumere nel nostro ambito, prevenire sgradevoli conseguenze di inevitabili incidenti e il danneggiamento dei capelli.
Adottare il turbante durante i cantieri di restauro non ha l’obiettivo di creare una moda, travisando così il significato primario del nostro lavoro, ma farlo diventare un accessorio che, in primo luogo sia utile per una protezione personale e secondariamente identifichi il restauratore. Come il medico ha il suo camice, il muratore la sua divisa, l’imbianchino la sua tuta, il cuoco il suo cappello; il restauratore avrà il suo turbante.
La sua facilità di ideazione e costruzione permetterà un uso immediato e semplice in qualsiasi situazione di cantiere o laboratorio di restauro. L’unica accortezza sarà quella di adottare diverse soluzioni a seconda del luogo di lavoro.
Mi spiego meglio, se ci si trova di fronte ad una volta a botte, si dovrà mantenere un minimo ingombro per non urtare il soffitto, creando ulteriori danni.
Nel caso di un cantiere esterno sarà fondamentale aumentare la protezione, specialmente se si lavora nei piani più bassi, per poter evitare episodi spiacevoli come quello citato precedentemente.
Qui sotto riporto due possibili alternative.
Un’alternativa soffice



Racconti di cantiere
Quel giorno in cui caddero dal piano del ponteggio delle polveri colorate, i pigmenti usati per il ritocco, sopra la tuta bianca di una ragazza del piano di sotto. Perché accadde?
Per distrazione! I pigmenti non sono stati miscelati precedentemente con il legante.
Sempre frequente la presenza della polpa di carta fra i capelli, assai fastidiosa. Perché succede?
È inevitabile quando si lavora con polveri così sottili.
Fin qui non siamo di fronte ad enormi conseguenze, ma i pericoli sono all’ordine del giorno. Ne cito solamente alcuni.
Quando succede di rimanere troppo tempo a contatto con il carbonato d’ammonio, questo rischia di mettere a repentaglio la vista perché gli occhi iniziano a lacrimare e a diventare rossi, come sotto effetto di droghe.
Questo solvente si usa spesso nel momento di esecuzione di impacchi, che per via di umidità e temperatura estreme, cadono e finiscono in testa a chi lavora.
La mancata identificazione di un prodotto con l’etichetta nel barattolo, potrebbe far scambiare ad esempio un acido con una base, compromettendo così l’integrità dell’opera e successivamente andare a ledere la professionalità di chi lavora.
Quindi perché non prevenire i possibili danni sulla persona con un’unica soluzione?
Lascio a voi riflettere sull’importanza della sicurezza nell’ambiente di lavoro per poter procedere con assoluta tranquillità.

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